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Il fenomeno del Load dump e le precauzioni da considerare

L'idea di scrivere un articolo su questo argomento mi è venuta dopo aver recentemente letto del caso di una Renault Clio alla quale erano comparsi diversi errori in centralina dopo che il proprietario aveva prestato soccorso ad un altro veicolo facendo ponte con i cavi sulla batteria e lasciando il motore acceso.
Prima di questo caso però mi era capitato anche di assistere ad alcuni episodi nei quali la batteria veniva scollegata a motore acceso per controllare se l'alternatore era in grado di generare corrente.
Perché queste pratiche possono rappresentare un'operazione pericolosa in un'auto moderna?
Per capirlo è opportuno fare prima un breve passo indietro per ripassare il funzionamento di un alternatore: come sappiamo è composto da un gruppo di avvolgimenti esterni detto statore e da un altro gruppo di avvolgimenti interni detto rotore che fungendo da elettromagnete generano un campo magnetico rotante.
Grazie alla modulazione dell'intensità di corrente che scorre negli avvolgimenti del rotore è possibile regolare l'intensità del campo magnetico rotante e di conseguenza anche la corrente indotta negli avvolgimenti dello statore o, se vogliamo, la tensione di uscita applicata al carico.
Grazie a questo semplice sistema è possibile mantenere costante la tensione sia rispetto ai carichi elettrici collegati che rispetto al numero di giri del motore (e di conseguenza dalla velocità con cui gira il rotore).
La modulazione della corrente nel rotore può essere gestita da un classico regolatore di tensione come negli alternatori di vecchia generazione così come da un regolatore di nuova generazione che troviamo in tutti gli alternatori intelligenti comandati dalla centralina motore; a prescindere però dalla tecnologia utilizzata ci si ritrova sempre di fronte ad un dispositivo che è potenzialmente in grado di produrre tensioni che vanno ben al di la dei nominali 12-14V e questo può avvenire in un modo molto semplice: basta disalimentare in modo brusco un carico elettrico o, per usare un altro termine, dando origine ad un “load dump”.
Nel momento in cui viene infatti scollegato un carico il regolatore di tensione dell'alternatore inizia subito a ridurre la corrente che scorre nel rotore così da diminuire l'intensità del campo magnetico e di conseguenza anche la corrente indotta negli avvolgimenti dello statore.
Per poter però dissipare l'energia accumulata nel rotore sotto forma di campo magnetico è tuttavia necessario che trascorra un certo tempo che, seppur piccolo, è di gran lunga superiore a quello virtualmente nullo richiesto per la disconnessione del carico tramite all'apertura di un interruttore o la disconnessione di un cavo.
Ne consegue che per un breve lasso di tempo l'intensità della corrente prodotta dall'alternatore continuerà a mantenersi a livelli elevati diminuendo in modo lento (dove lento va inteso in termini di decimi o centesimi di secondo) nonostante la resistenza totale del carico sia aumentata istantaneamente.
Come è facilmente intuibile dalla legge di Ohm (V = R * I), se R aumenta mentre I non diminuisce allora anche V dovrà per forza aumentare.
A quanto sopra descritto va aggiunto inoltre anche un altro elemento: dato che lo statore è anche un grosso induttore percorso da una corrente, si avrà anche un ulteriore picco di sovratensione molto breve ma intenso che si andrà a sommare a quello già descritto precedentemente (proprio come è possibile osservare quando si analizza la forma d'onda di un iniettore o di una qualsiasi altra bobina alimentata in modo impulsivo con un oscilloscopio).
L'intensità ed il tempo di smorzamento di questo transitorio non è costante ma dipende sia dall'entità del carico che viene disconnesso che dalla velocità con cui il rotore sta girando.
Nei casi più estremi l'impulso può durare fino ad alcuni decimi di secondo con una tensione che può raggiungere valori di picco molto elevati, parliamo quindi di un fenomeno che è in grado di distruggere facilmente qualsiasi circuito elettronico ed è proprio per questo motivo che tutti i sistemi elettronici che vengono installati a bordo delle automobili vengono dotati di dispositivi di protezione adeguati.

 
Esistono diverse tecniche per proteggersi da questi eventi e principalmente si basano su tecniche che possono essere applicate singolarmente o in modo combinato:
soppressione della sovratensione tramite dissipazione dell'energia in calore (diodi zener, mosfet, regolatori di tensione lineari, ecc.) breve disconnessione istantanea del sistema di ricarica dal resto dell'impianto elettrico Al fine di garantire la robustezza e l'efficacia dei sistemi di protezione dalle sovratensioni sono state introdotte delle normative come la ISO 7637-2 o la successiva ISO 16750-2 che prevedono severi stress test da superare (uno di questi prevede per esempio il superamento di 5 impulsi da 18V di picco e della durata di 400ms ciascuno a distanza di 1s l'uno dall'altro).
Consideriamo però a questo punto il caso di un'auto in panne: una batteria scarica è di sicuro un buon esempio di grosso carico elettrico ed ancora ben più grosso lo è un motorino di avviamento.
Una situazione di questo tipo rappresenta uno stress atipico sui sistemi elettronici di protezione dal momento che durante la normale messa in moto del motore l'alternatore non è assolutamente ancora in grado di produrre corrente.
Ecco quindi che se si deve far partire un'auto facendo ponte con i cavi l'auto che effettua il soccorso non dovrebbe mai rimanere con il motore acceso sebbene molti anni addietro fosse una pratica diffusa ed a volte pure consigliata. Infatti nel momento in cui vengono scollegati i cavi o peggio ancora ogni volta che viene disinserito il motorino di avviamento sull'auto in panne l'auto che sta prestando il soccorso sarà soggetta a fenomeni di load dump di eccezionale intensità.
Se consideriamo che questi sistemi di protezione vengono progettati per poter gestire in sicurezza la disconnesione involontaria di un morsetto della batteria (per esempio un morsetto che si allenta o che è ossidato) appare chiaro che lo scenario sopra descritto rappresenta un caso d'uso di gran lunga più severo e dovrebbe essere altrettanto evidente che se questi sistemi non dovessero reggere lo stress le componenti elettroniche di entrambe le auto potrebbero subirebbero danni seri dal momento che hanno gli impianti elettrici collegati assieme.
Si può sicuramente dire che in questi casi adottare il principio di precauzione evitando di provare a vedere fino a che punto reggono i sistema di protezione è la cosa più saggia.
Rimane comunque un operazione sconsigliabile anche quella di scollegare i morsetti della batteria su un'auto a motore acceso, e questo non tanto per l'eventuale sfiammata che si potrebbe avere nel momento in cui si scollega il morsetto (cosa comunque pericolosa di suo perché nei pressi della batteria potrebbero accumularsi piccole sacche di idrogeno) quanto piuttosto per via del load dump che si viene a generare ed in particolare se la batteria non è carica.
Non va infine sottovalutato il fatto che una batteria si comporta nel circuito elettrico dell'auto come un grosso condensatore opponendo resistenza alle rapide variazioni di tensione e svolgendo quindi una utilissima funzione di filtro delle sovratensioni.
Rimuovendo questo filtro le sovratensioni non potrebbero far altro che andare a scaricarsi sul resto dell'impianto e con tutti gli attuatori elettromeccanici che sono presenti in un'auto moderna i picchi di sovratensione sull'impianto a 12V non mancano di certo.
 
Fonti e link consigliati per ulteriori approfondimenti:
Load-Dump Protection for 24V Automotive Applications – Analog Devices: https://www.analog.com/en/resources/technical-articles/loaddump-protection-for-24v-automotive-applications.html Il fenomeno del load dump nel settore automotive – Applicazioni automotive: https://elettronica-plus.it/wp-content/uploads/sites/2/2009/06/20080701026_11.pdf Load dump – wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Load_dump Load Dump and Cranking Protection for Automotive Backlight LED Power Supply – Texas Instruments: https://www.ti.com/lit/an/snva681a/snva681a.pdf From Cold Crank to Load Dump: A Primer on Automotive Transients: https://www.monolithicpower.com/from-cold-crank-to-load-dump-a-primer-on-automotive-transients Transient Voltage Suppressors (TVS) for Automotive Electronic Protection - Vishay Intertechnology, Inc.: https://www.vishay.com/docs/49749/49749.pdf  

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Test e Ricalibratura di un Debimetro – Seconda Parte

In questa seconda ed ultima parte si vuole mostrare come sia stato possibile ricalibrare il debimetro Bosch difettoso che non era di fatto più utilizzabile.
Questa è la seconda parte, ti consigliamo di leggere la prima parte e poi la continuazione in questo articolo.
Ti sei perso la prima parte? Clicca sul link qua sotto!

Iniziamo riprendendo questo oscillogramma in cui sono presenti i segnali dei due debimetri (in blu quello del debimetro funzionante ed in rosso quello del debimetro difettoso) unitamente alla loro differenza misurata sia in valore assoluto (curva in viola) che in valore percentuale (curva in verde).

Se si osserva con attenzione la curva verde si può notare come la differenza misurata sotto forma di errore percentuale si mantenga tutto sommato costante, indipendentemente dalla quantità di aria che viene misurata.
Come meglio mostrato dall'immagine seguente si può verificare che l'errore del segnale rimane sempre all'interno della fascia -8% ±2%.

 
Questo significa che il debimetro difettoso non è da considerarsi propriamente guasto in quanto il segnale che produce risulta semplicemente attenuato di circa un 8% rispetto a quello che dovrebbe essere.
Inizialmente ho pensato che doveva essere possibile agire su un trimmer di regolazione come avevo visto fare in questo video di una società specializzata nella ricalibratura dei debimetri, tuttavia ho potuto verificare che ciò non è possibile in quanto la PCB dei debimetri Bosch ne è sprovvista (oltre ad essere completamente annegata nella resina).
 

 
Visto però che non era possibile regolare il debimetro dall'interno, perchè non farlo dall'esterno? Ecco quindi l'idea: realizzare un modulo esterno da interporre tra il debimetro e la centralina motore che fungesse da amplificatore di segnale.
In fin dei conti, se il segnale prodotto dal debimetro è attenuato e lo si riamplifica fino a compensare completamente questa attenuazione il segnale che si ottiene dovrebbe essere corretto. Ed alla centralina motore questo poco importa.
Lo possiamo vedere un po' come quando ci mettiamo gli occhiali per compensare un difetto visivo: il problema dei nostri occhi continua ad esistere ma grazie agli occhiali torniamo a vedere bene, ed alla fine è questo quello che importa.
Questo è il progetto del modulo esterno che ho realizzato e come si vede è piuttosto semplice. Fondamentalmente è basato su un amplificatore operazionale e pochi altri componenti (per non appesantire l'articolo ne descriverò il funzionamento in un successivo commento qualora vi fosse interesse).

 
Questo il modulo esterno una volta completato

 
A questo punto non dovrebbe essere difficile immaginare come sia stato possibile ricalibrare il debimetro difettoso: è stato infatti sufficiente collegare il modulo al debimetro difettoso e poi, grazie al sistema descritto nella prima parte di questo articolo, regolare il guadagno dell'amplificatore tramite il trimmer fino a quando il segnale prodotto dal debimetro funzionante e quello in uscita dal modulo di taratura non erano perfettamente uguali, ovvero fino a quando la differenza tra i due segnali non era perfettamente zero.
La prova regina però non può che essere una: vedere come si comporta il motore durante una prova su strada.
E' per me difficile trasmettere con parole o grafici il fatto che il motore ha digerito molto bene questa modifica che io chiamo scherzosamente “protesi per vecchi debimetri”.
Tutto il lavoro che ho descritto è stato oggetto di un video, così che chi volesse toccare con mano e sentire come girava il motore prima con il debimetro guasto e successivamente con il modulo di taratura, nonché durante il test di guida su strada ne abbia la possibilità:
Concludo il tutto con questa riflessione: sebbene sia stato possibile dimostrare la fattibilità tecnica di ricalibrare un debimetro starato grazie ad un modulo esterno mi sento di ritenere un dispositivo di questo genere più come uno strumento di diagnosi che non di riparazione. La sua più grande utilità secondo me è infatti quella di permettere in qualsiasi momento una rapida riparazione provvisoria di un debimetro diagnosticato come starato ed escludere così l'esistenza di altre concause che hanno portato al cattivo funzionamento del motore.
Un debimetro starato alla fine non si sa perché o come lo sia diventato ma non è così improbabile pensare che la staratura possa continuare a degenerare nel tempo ed una riparazione che si rispetti deve garantire ad un cliente la durabilità nel tempo.

apollokid

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Test e Ricalibratura di un Debimetro – Prima Parte

Con questo articolo voglio condividere un sistema originale per poter controllare il corretto funzionamento di un debimetro e che, all'occorrenza, può essere utilizzato anche per la ricalibratura.
"Premessa: quanto riportato in questo articolo è frutto di un progetto sperimentale e pertanto tutti i dati qui riportati ed i risultati ottenuti sono relativi ad uno specifico modello di debimetro Bosch a filo caldo del tipo analogico, codice 0 280 212 016. I principi alla base però sono di carattere generale e possono pertanto essere applicati anche ad altri modelli di debimetro, sia analogici che digitali (PWM)."
Diego A. @apollokid
 
Il debimetro è molto probabilmente il sensore più ostico che si può trovare in un'automobile in quanto il suo malfunzionamento può causare problemi al motore più o meno fastidiosi e non sempre facili da diagnosticare.
In genere questo sensore è raro che si possa guastare completamente e che non produca più alcun segnale (oppure che ne produca uno visibilmente errato), molto spesso tende a fare delle misurazioni più o meno errate ed è proprio questo che rende così difficile farne la diagnosi al punto che uno dei metodi più diffusi per capire se sta funzionando correttamente è proprio quella di provare a sostituirlo con uno nuovo e vedere se i problemi scompaiono.
Questo metodo è sicuramente valido ma presenta anche qualche inconveniente:
un debimetro nuovo ed originale può essere molto costoso ed inoltre se l'auto ha già un po' di anni alle spalle potrebbe anche essere difficile da reperire un “clone” aftermarket sebbene sia una alternativa economica non è sempre in grado di assicurare un buon funzionamento del motore tant'è che non è raro leggere le testimonianze di chi ne sconsiglia l'uso preferendo piuttosto un usato purchè originale un ricambio usato può essere un'altra valida alternativa ma non sempre si può essere certi che sia perfettamente funzionante L'inconveniente più grosso che io vedo però è un altro: come ci si dovrebbe comportare se dopo aver sostituito il debimetro il motore dovesse continuare a funzionare male?
Può essere che anche il nuovo debimetro sia difettoso?
E' possibile che il motore avesse anche un altro problema o che il debimetro vecchio andasse bene? E se non era il debimetro, come faccio a capire se quello nuovo funziona bene?
Si potrebbe obiettare che esistono altri modi per cercare di capire se un debimetro funziona come guardare con il multimetro se la tensione del segnale aumenta con l'aumentare dei giri, provare a scollegare il connettore così da mandare la centralina in recovery e vedere se la situazione migliora oppure analizzare la curva del segnale con l'oscilloscopio ma per quella che è la mia esperienza nessuno di questi metodi è realmente in grado di dare una risposta certa alla domanda “questo debimetro è buono o no?”.
Prendiamo per esempio questo oscillogramma che rappresenta la forma tipica del segnale di un debimetro mentre si da una forte sgasata in un'auto a benzina: la tensione del segnale rimane piuttosto stabile e con poche oscillazioni fintanto che il motore è al minimo, non appena si apre la farfalla si ha una prima grande oscillazione seguita da una serie di oscillazioni di ampiezza inferiore in corrispondenza delle aspirazioni dei singoli cilindri, oscillazioni che tendono progressivamente a diminuire ed a ravvicinarsi l'una all'altra man mano che il motore sale di giri finchè, una volta
rilasciato il pedale del gas, la tensione scende bruscamente.
Prima però di ritornare al valore iniziale occorre attendere che il motore rallenti fino a tornare al regime del minimo.

Fonte: https://www.picoauto.com/library/automotive-guided-tests/hot-wire-petrol
Nonostante i valori della tensione siano specifici per ciascun motore e per ciascun debimetro è abbastanza logico dedurre che se la forma del segnale è diversa da questa è perchè il debimetro è guasto. Quando però un debimetro sta misurando male la forma del segnale non subisce sostanziali variazioni.
 
Vogliamo vedere un caso reale? Questo è il test fatto su un debimetro perfettamente funzionante:
~ 2,4V al minimo
~ 3,8V picco massimo appena si apre di colpo la farfalla
~ 4,5V con motore prossimo al massimo di giri

 
 
Questo invece è il test effettuato sempre sulla stessa auto ma con un debimetro difettoso (era stato sostituito perchè il motore girava male e non passava nemmeno più la revisione):
~ 2,3V al minimo
~ 3,6V picco massimo appena si apre di colpo la farfalla
~ 4,0V con motore prossimo al massimo di giri

 
 
Si potrebbe credere che conoscendo anche i valori esatti di tensione di un debimetro perfettamente funzionante non dovrebbe essere complicato riconoscere un debimetro difettoso da uno buono, purtroppo non è così e vedremo anche perché, prima però di proseguire è bene fare anche qualche considerazione:
è vero che con il debimetro difettoso il motore ha impiegato più tempo a prendere giri (3 secondi contro 1,5) ma nulla vieta che avrebbe potuto salire più lentamente per altri motivi la differenza di 0,5V misurata al massimo potrebbe essere almeno in parte dovuta al non essere riusciti a portare il motore allo stesso numero di giri la misure della tensione al minimo è facile da confrontare ma rimane il fatto che 0,1V di differenza è un valore molto piccolo la differenza di tensione del primo picco è anche lei modesta (solo 0,2V) Molti mesi più tardi stavo cercando di risolvere un problema di carburazione grassa sempre sulla stessa auto e trovai un trafilamento di benzina in aspirazione dovuto alla membrana del regolatore di pressione che si era crepata. Nonostante la sua sostituzione il problema di carburazione rimaneva ed ipotizzai perciò un malfunzionamento del debimetro.
Feci così una nuova misurazione che mi diede questi risultati:
~ 2,3V al minimo
~ 3,6V picco massimo appena si apre di colpo la farfalla
~ 4,6V con motore prossimo al massimo di giri

Alla luce di questi valori come poteva considerarsi il debimetro? Buono oppure no? Stando ai primi due valori no, stando al terzo forse si.
In quell'occasione ebbi l'opportunità di poter ripetere lo stesso test su un'altra auto identica, l'oscillogramma fu sostanzialmente uguale ed anche i valori di tensione erano simili:
~ 2,3V al minimo
~ 3,5V picco massimo appena si apre di colpo la farfalla
~ 4,6V con motore verso il numero massimo di giri
Visto che i due debimetri si comportavano esattamente allo stesso modo e considerando che l'altra auto era priva di problemi ne conseguiva che se un debimetro era perfettamente funzionante lo doveva essere anche l'altro.
Alla fine il problema di carburazione era causato dalla sonda lambda difettosa mentre il debimetro era perfettamente funzionante.
Perchè però i valori di tensione non erano stati utili per testare quel debimetro?
Senza la pretesa di avere in tasca la verità assoluta, le conclusioni a cui sono giunto sono che:
le misure dei primi test erano state prese a fine Agosto 2020 quando faceva ancora molto caldo mentre il problema di carburazione era stato affrontato ad inizio Aprile 2022 cercare di raggiungere esattamente il numero massimo di giri senza andare in fuori giri non è una operazione facilmente ripetibile, così come non lo è aprire rapidamente la valvola a farfalla 1 o 2 decimi di volts sono oggettivamente dei valori troppo piccoli  
Perchè un test del debimetro sia veramente affidabile è necessaria solo una cosa: che venga verificata la correttezza della misurazione al variare della massa d'aria.
Dato però che misurare la quantità di massa d'aria che scorre in un tubo non è un compito banale e dato che le curve di taratura dei vari modelli di debimetro non sono certo di pubblico dominio si potrebbe provare a collegare in serie al debimetro da controllare un altro debimetro (di cui si è certi del corretto funzionamento) in modo da potersi limitare al confronto di due segnali elettrici mentre viene variata la quantità di aria che li attraversa grazie ad un aspiratore ed ad una valvola con cui far variare la quantità d'aria che viene aspirata.

Grazie infine ad un oscilloscopio digitale a 2 canali è possibile con poca spesa tracciare sullo schermo entrambi i segnali e confrontarli graficamente.
 
Di seguito voglio riportare alcuni grafici dai quali si può vedere la comparazione dei segnali prodotti sia da debimetri funzionanti che difettosi a testimonianza della validità che può avere questa tecnica alternativa di diagnosi.
NOTA: in blu ed in rosso i segnali prodotti dai 2 debimetri ed in verde la differenza % tra i due segnali
 
CASO 1
blu = debimetro Bosch funzionante
rosso = segnale di riferimento
Δ % circa 0,5%, sintomi: nessuno, il motore funziona regolarmente con entrambi i debimetri

 
 
CASO 2
blu = segnale di riferimento
rosso = debimetro Bosch difettoso
Δ % circa 8%, sintomi: motore non tiene il minimo, puzza allo scarico, accelerazione difficoltosa e zoppicante

 
 
CASO 3
blu = segnale di riferimento
rosso = debimetro Bosch difettoso
Δ % circa 3%, sintomi: motore tiene male il minimo, avviamento difficoltoso, erogazione non ottimale.

 
 
CASO 4
blu = segnale di riferimento
rosso = debimetro aftermarket probabilmente difettoso
Δ % variabile tra 1% e 3% circa in modo irregolare
sintomi: motore che ogni tanto va bene, ogni tanto tiene male il minimo ed ha una erogazione non ottimale.
 
Se si esclude il caso 4 nel quale la differenza tra i due segnali risulta inspiegabilmente anomala, si può osservare che nei casi 2 e 3 la differenza % rimane sostanzialmente costante indipendentemente dalla massa d'aria misurata, salvo giusto i brevi transitori. Proprio quest'ultima caratteristica verrà sviluppata in un prossimo articolo nel quale verrà ricalibrato il debimetro del caso 2 permettendogli di tornare a funzionare.
Non solo, pre-calibrando opportunamente il segnale prodotto dal debimetro di riferimento e disponendo di adeguati raccordi diventa possibile estendere questo principio di funzionamento a qualsiasi debimetro, sia analogico che con segnale digitale in PWM.
Fine prima parte.

apollokid

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Una messa in fase particolare: motori EVO Volkswagen

Con la sigla EA211 EVO viene identificata l’evoluzione dei motori benzina della serie EA211, sia a tre che a quattro cilindri, con cilindrate da 1,0 fino a 1,5 litri.
Trattasi di motori utilizzati sui veicoli di tutto il gruppo VAG, compresa l’applicazione sulle vetture mild hybrid (MHEV).
La gamma EA211 è stata introdotta nel 2011, con motori 1,0, 1,2, 1,4 e 1,6 che ottemperavano alle normative anti inquinamento EURO 6 C.
A partire dal 2016, è stata introdotta la gamma EA211 EVO con motori 1,0 e 1,5 per aderire, inizialmente, alle normative EURO 6D Temp e poi alle attuali EURO 6. Sono motori con distribuzione a cinghia e non più a catena.
Nei motori 4 cilindri della famiglia EA211 EVO sono state impiegate nuove tecnologie per ottemperare alle normative antiinquinamento, come ad esempio monoblocchi in alluminio di tipo open deck, canne cilindri realizzate con materiali di riporto con processo al plasma (tecnica APS), combustione a ciclo Miller (motore 1,5 96 kW), aumento della pressione di iniezione fino a 350 bar e l’applicazione di un filtro GPF.
Ma, tra le caratteristiche più rilevanti, tali motori necessitano di una “messa in fase” molto specifica, che rende l’operazione non più di tipo convenzionale.
Le normative antinquinamento di omologazione del veicolo impongono che il motore funzioni sempre entro certi parametri di combustione ben stabiliti, con una tolleranza molto bassa. Per cui la fase motore deve essere assolutamente precisa e deve necessariamente lavorare nei limiti imposti dal costruttore.

Giro cinghia di distribuzione
 
Legenda
PAM: Puleggia albero motore
PG: Puleggia guida
T: Tenditore
ACS: Albero a camme di scarico
ACA: Albero a camme di aspirazione
 
Volkswagen afferma che la cinghia è esente da manutenzione, allora perché prestare attenzione a questa procedura? Contestualmente, il costruttore dichiara che la cinghia va invece sostituita in caso di uso gravoso della vettura, per fare un esempio nell’impiego in circuiti cittadini che corrisponde, quindi, alla situazione di migliaia di veicoli. L’intervallo viene fissato a 120.000 km.
Allora la cinghia va cambiata, eccome!
La procedura viene svolta in due fasi, una meccanica, che poi è quella tradizionale ed una elettronica, tramite l’uso di un kit strumentale specifico realizzato da VAG atto alla regolazione dinamica degli alberi a camme rispetto all’albero motore; queste strumentazioni sono raccolte in un unico tool denominato VAS 611007, costituito in particolare da goniometri digitali ed una interfaccia di collegamento ad un computer.
Con tale strumentazione è possibile anticipare o posticipare gli assi a camme rispetto al punto 0 della messa in fase statica (meccanica) con una precisione pari ad 1/10 di grado!

Kit messa in fase VAS 611007
 
 
La strumentazione riportata in figura è applicabile sul 1,5 l ed eventualmente anche sul 1,4 l.
Per le motorizzazioni 1,0 e 1,6 l è necessario impiegare un kit di integrazione VAS 611007/18 contenente un castelletto di supporto sensori e perni di collegamento specifici.
 
Ma se la messa in fase viene fatta solo meccanicamente, senza usare la strumentazione vista, cosa succede?
Inizialmente il motore funziona in maniera regolare, senza mostrare alcun problema. Ma sarà facile che il cliente, dopo 500 – 600 chilometri percorsi, tornerà in officina con la spia MIL accesa e con il motore in funzionamento di protezione. Con una distribuzione non perfettamente in fase, seppur di poco, la centralina iniezione adatta la carburazione ma rapidamente finisce con l’andare oltre i limiti imposti, come detto molto stretti. Da qui l’accensione della spia iniezione e il motore in recovery.
 
Messa in fase
Il tecnico dovrà dapprima eseguire la messa in fase meccanica.
Brevemente, si deve allineare la tacca sulla puleggia albero motore con quella sul basamento (pistone 1° cilindro al PMS), inserendo poi un perno di blocco nell’apposito foro (chiuso da una vite) vicino alla pompa dell’olio. Sarà il perno di appoggio di uno dei contrappesi dell’albero.
Si passa a rimuovere la puleggia (tramite l’apposito attrezzo) ed il carter, mentre non ci sono dime di blocco per gli alberi a camme: il tecnico dopo aver rimosso il blocco pompa acqua/termostato dall’albero a camme di scarico ed il tappo in plastica albero a camme di aspirazione, deve assicurarsi, una volta bloccato l’albero motore al PMS, che le cave riportate sui codoli degli alberi a camme siano parallele al piano inferiore della testa.

Posizionamento alberi a camme
 
 
Quindi togliere la vecchia cinghia e montare quella nuova partendo dalla puleggia albero motore, proseguendo sulla puleggia di guida, sulle due pulegge alberi a camme ed infine sulla puleggia tenditore (senso antiorario).
A questo punto inizia la fasatura elettronica, adoperando il kit prima descritto.
Verificando che il 1° cilindro sia ancora al PMS e che le cave degli alberi a camme siano in posizione orizzontale, si vanno ad inserire i due canotti di collegamento alberi-sensori, rispettando i colori:
     - Blu albero a camme aspirazione;
     - Rosso albero a camme scarico.
Con una chiave a brugola da 4 mm bloccare i due canotti agli alberi a camme.

Inserimento canotti di blocco su alberi a camme
 
Installare ora la torre porta sensori (castelletto), avvitando i due bulloni evidenzianti in figura, assicurandosi che i perni dei sensori entrino nelle cave di accoppiamento.

Installazione supporto sensori angolari
 
Successivamente avvitare i tappi di chiusura rosso e blu, in modo da mandare a contatto i canotti contenente i sensori verso la testa.

Inserimento tappi di chiusura
 
Il kit è comprensivo di un software per la visualizzazione dei valori angolari degli alberi a camme, che è da installare su PC.
Fatto questo, si collega la strumentazione al computer tramite USB; dopodiché si rimuove il perno di blocco dell’albero motore e lo si ruota di circa 45° in senso antiorario.
Con questa rotazione antioraria, sul monitor del PC verrà visualizzato lo spostamento angolare degli alberi a camme (i valori mostrati sono a titolo di esempio):

Posizione angolare alberi a camme
 
Ora si deve reinserire il perno di blocco e portare di nuovo l’albero motore a battuta. Leggendo sul software gli angoli degli alberi a camme, difficilmente si avranno i valori costruttivi. Ad esempio, per il 1,5 l devono essere:
Aspirazione -0,3° ± 1,2°; Scarico +1,1° ± 1,2°. Si dovrà allora procedere a settare manualmente la corretta posizione.
Per fare ciò, rimuovere il coperchio dei due alberi a camme, con l’apposito attrezzo bloccare le pulegge ed allentarne poi le viti di serraggio. In tal modo, l’operatore sarà in grado di ruotare a manualmente gli alberi a camme per il giusto posizionamento.
Infatti, per rientrare nella tolleranza voluta dal costruttore, si ruoti a mano (o con l’aiuto di una chiave esagonale) una alla volta ciascuno degli alberi, osservandone la posizione sul monitor. Raggiunto l'obiettivo, si avviti il freno del sensore per non far ruotare l’albero stesso.

Regolazione alberi a camme e blocco sensori
 
Infine, con gli alberi in posizione, andranno serrate alla dovuta coppia le due pulegge.
Per controllo, ruotare l’albero motore di due giri in senso orario. I valori angolari degli alberi a camme devono naturalmente rimanere in tolleranza.
Solo osservando tale procedura si avrà la certezza di avere un motore correttamente in fase.

Esempio di regolazione (solo albero a camme di aspirazione)
 

Riparando

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Problemi di funzionamento cambio automatico Aisin Warner ad otto rapporti TG-81SC

Da quasi sconosciuto, il cambio automatico è diventato negli anni quasi un “must” per le vetture.
Una trasmissione automatica viene scelta dagli utenti per la sua versatilità e comodità nella guida quotidiana, soprattutto nell’uso cittadino. Inoltre, l’automatico è in grado di ottimizzare i cambi marcia, quindi di massimizzare il rendimento del motore a favore di consumi più bassi e per questo viene impiegato dai costruttori anche allo scopo di contenere le emissioni inquinanti, contribuendo al compito di rientrare nelle severe disposizioni Euro 6.
Un nome di rilievo è sicuramente quello dell’azienda giapponese Aisin Warner, realizzatrice di diverse tipologie di cambi automatici, con una forte presenza sulle vetture più diffuse del mercato europeo.
A conferma di questo, il cambio Aisin Warner TG-81SC ad otto rapporti è una trasmissione che ritroviamo su un numero veramente ampio di automobili, dalla BMW Active Tourer ed alla Mini, passando per alcuni modelli best seller del gruppo PSA come Peugeot 3008 e Citroën Picasso, per arrivare a quasi tutti i modelli Volvo. Questa trasmissione è l’evoluzione del vecchio cambio a 6 rapporti, molto simili strutturalmente.
È un cambio automatico di tipo Hydramatic con convertitore di coppia per motorizzazioni montate trasversalmente, con coppia motore non superiore ai 550 Nm. Il convertitore è dotato della frizione di lock-up che ha il compito di ridurre a zero la percentuale di slittamento tra la girante turbina e quella pompa. All’interno il cambio è provvisto di due gruppi epicicloidali collegati in serie tra loro, uno semplice e l’altro di tipo Ravigneaux; questo tipo di configurazione viene definita Lepelletier.

Figura 1: vista interna cambio AW TG81-SC
 
 
La trasmissione è dotata di quattro frizioni di accoppiamento a dischi multipli (C1-C2-C3-C4) e di due frizioni di blocco (B1-B2), una (la B1) a banda freno, mentre la seconda (la B2) di tipo multidisco. I gruppi elettroidraulici integrano in media otto elettrovalvole, di cui sei per il cambio dei rapporti, una per il comando della frizione di lock-up ed una per la gestione della pressione principale dell’olio, la quale viene assicurata da una pompa che viene calettata direttamente sul canotto del convertitore.
Legati all’elettronica troviamo all’interno del cambio due sensori di giri, posizionati rispettivamente uno sull’albero di ingresso, l’altro sull’albero di uscita del cambio e la sonda temperatura olio cambio.
Tale configurazione è quella dei cambi con i codici AWF8F35 e AWF8F45.
 
Esiste anche una versione meccanicamente simile alla precedente, ma con la peculiarità di avere la pompa dell’olio azionata dal canotto del convertitore per mezzo di una catena. I codici in questo caso sono AWF8G30, AWF8G45 e AWF8G55, versioni però utilizzate su vetture in mercati extra Europa.

Figura 2: componenti della trasmissione
 
Pompa olio. Banda freno B1. Tamburo B1/Tamburo esterno frizioni C3 e C4. Albero ingresso gruppo epicicloidale anteriore. Corona epicicloidale anteriore. Frizione C1 Mozzo tamburo B1. Piastra intermedia con ingranaggio di uscita. Ruota libera. Epicicloidale Ravigneaux. Frizione B2. Albero e frizione C2. Ingranaggio intermedio trasmissione moto dal rotismo alla corona del differenziale. Differenziale  
Il punto debole del cambio è uno dei due sensori di giri, nello specifico quello di uscita. Il sensore è di tipo magneto resistivo ed informa la centralina dei giri in uscita del rotismo (giri OUT), parametro fondamentale per il controllo della marcia impostata.
 
Gli errori generati in memoria possono essere di più tipi, come i seguenti:
- P0722: Nessun segnale su circuito sensore velocità OUT;
- P077C   Bassa tensione circuito sensore velocità di uscita;
- P077D   Alta tensione circuito sensore velocità di uscita.
 
All'interno del Forum vedremo come intervenire per diagnosticare il componente difettoso e di conseguenza sostituirlo.
LINK ALLA RISOLUZIONE DEI GUASTI
 
 
 

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Difetti Auto

Casistica guasti su vetture Elettriche ed Ibride

Le ibride e le elettriche sono ormai vetture entrate a far parte del parco veicolare italiano a tutti gli effetti. Questo vale in special modo per le auto ibride (le HEV e le PHEV), con numeri veramente importanti: le immatricolazioni nel 2021 hanno superato quelle delle diesel, con un incremento del 123% rispetto all’anno precedente.
Seppur in misura minore, anche le full electric (le così dette BEV) hanno conquistato una bella fetta di mercato, con circa 50.000 consegne che rappresentano il 3,7 % del totale. Questa importante crescita nelle immatricolazioni è supportata dal crescente numero di case automobilistiche che hanno introdotto nella loro gamma modelli elettrici ed ibridi plug-in presenti sul mercato.
Quindi cambia anche lo scenario di officine e carrozzerie, con l’entrata di nuove vetture e, di conseguenza, anche di nuove problematiche da affrontare e risolvere.
 
Da un punto di vista diagnostico, si inizi col dire che la SAE ha riservato un set di codici guasto specifici, proprio in virtù del particolare sistema di trazione e gestione di queste vetture.
Tale gruppo di DTC è il P0AXX, formato da un codice comune (il P0A) e le “X” che definiscono le sotto varianti dei guasti, il quale va a descrivere le avarie del power train ibrido ed elettrico.
Uno dei guasti più comuni e diffusi è originato da problemi al plug di servizio (o di sicurezza) del circuito di alta tensione, il quale agisce come un interruttore generale. Infatti rimuovendolo, si opera un interruzione fisica dell’alta tensione, operazione compiuta per ragioni di sicurezza e/o di servizio (ad esempio, lavori e manutenzioni da effettuare sul veicolo).
Il codice guasto associato è il seguente:
P0A0D e P0A0A - Circuito di interblocco sistema alta tensione.
Alle volte, si tratta solamente di un errato riposizionamento, ossia viene montato ma senza chiudere il blocco meccanico del plug (l’ultimo scatto di chiusura).
 

Plug di servizio Toyota (2019)
 
In altre circostanze, risulta saltato il fusibile interno, che può essere presente o meno all’interno del dispositivo (come quello mostrato in figura).
In seconda battuta, sono abbastanza frequenti le avarie sul sistema di raffreddamento delle batterie di alta tensione, che possono essere ad aria forzata (tramite un ventilatore dedicato) oppure ad aria climatizzata, sfruttando l’impianto A/C delle vettura. Inoltre sono presenti più sensori NTC di temperatura per il controllo dello stato termico della batteria.
È bene notare che se la batteria non viene più raffreddata, per questioni di sicurezza e di protezione della stessa batteria, la centralina del sistema ibrido disattiva l’alta tensione, con il conseguente fermo vettura.
I codici guasto associati a tale problema sono:
P0A9B e P0AAC: temperatura rilevata dal sensore inferiore a -45 °C. interruzione o cc verso alimentazione;
P0A85: Circuito controllo raffreddamento ventola 1 pacco batteria ibrida valore alto;
P0A82: differenza temperatura della batteria stimata dal funzionamento dell'elettroventola diversa da quella misurata dai sensori.
 
I guasti possono essere generati da malfunzionamenti dei sensori (danni a cablaggi, connettori o corto circuiti), dal ventilatore fuori uso, dai componenti del circuito clima che gestiscono il raffreddamento delle batterie o semplicemente da ostruzioni dei condotti di ventilazione.
 
I sistemi di alta tensione delle ibride ed elettriche sono dotati di due o tre relè di potenza (a seconda del costruttore) che gestiscono l’inserimento dell’alta tensione a bordo vettura. In alcuni casi, si possono verificare anomalie anche su tali contattori, accompagnati da questi DTC:
P1B77 - alta tensione, corto circuito a massa (sistemi Kia – Hyundai);
P0AA1-00 e P0AA4-00: contattore positivo o negativo batteria ibrida/ev bloccato in posizione chiusa;
Nel primo caso, il danno è provocato da un corto circuito elettrico sui uno dei relè o della piastra di alloggiamento, causato da sovraccarichi di potenza o da laschi della connessione.

 
Contattore parzialmente fuso (sistema Kia – Hyundai)
 
Se invece non viene trovata una visibile traccia di danneggiamento, il malfunzionamento della piastra è dovuto semplicemente ai relè che non commutano più.
Infatti in caso di blocco (a cui si riferiscono i DTC successivi), allora i guasti sono generati quando i contatti del relè si elettro saldano a causa di una scarsa velocità in chiusura (si forma un arco elettrico tra i contatti di potenza del relè di amperaggio sufficiente a generare una saldatura): dato che il comando dei relè viene dato in 12 V, ciò è dovuto ad un’alimentazione in bassa tensione non sufficiente (ad esempio, la batteria al piombo della vettura non più efficiente).
 
Un guasto invece di tipo puramente “diagnostico”, si presenta quando la vettura subisce un evento di crash. La centralina del sistema ibrido, sempre per ragioni di sicurezza, disconnette i contattori di potenza tagliando l’alta tensione sulla vettura, questo per scongiurare che eventuali cavi danneggiati possano generare corti circuiti tali da produrre correnti così elevate da innescare l’incendio delle batterie agli ioni di litio (notoriamente molto pericolose sotto questo punto di vista). Per gli impianti FCA (Jeep, Fiat, Alfa Romeo), siffatta situazione codifica un guasto specifico, il P167B-00: spegnimento del sistema controllato.
L’errore non è conseguenza di un’avaria in particolare ma viene codificato perché si renda necessario ed obbligatorio un reset diagnostico possibile soltanto dopo aver riparato la vettura ed aver ripristinato il corretto isolamento della parte in alta tensione.
 
Per i veicoli full electric Renault, che comprendono sia vetture che mezzi commerciali, esiste una problematica specifica, legata ad un’avaria del PEB (Power Electronic Box).
Il PEB assolve a due compiti fondamentali, ossia quelli di trasformare la tensione continua in alta tensione, proveniente dalla batteria agli ioni di litio, in tensione alternata per alimentare il motore di trazione e in bassa tensione per alimentare gli utilizzatori del veicolo.
 

Figura 3: Power Electronic Box Renault Zoe
 
Il fuori uso della vettura è accompagnato dal DTC 103196 – Convertitore di tensione, originato da una rottura di una delle sezioni elettriche del PEB.
Per convertire l’alta tensione da continua a trifase per il motore elettrico di trazione e per abbassarla da quasi 400 V a 14 V per le utenze, il PEB utilizza un trasformatore interno che si danneggia, in particolare si spezza di netto il traferro in materiale ferromagnetico di cui è composto.
 
 
 

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Difetti Auto

Impianto SCR, problematiche e metodi di verifica sull'impianto AdBlue e in particolare sulle sonde NOX

Un sistema di Riduzione Catalitica Selettiva (SCR, Selective Catalytic Reduction) è un sistema per l’abbattimento dei NOx nei gas di scarico nei moderni motori a combustione.
Generalmente è composto da un serbatoio di urea (l’agente “riducente”) o denominato commercialmente AdBlue (AdBlue® è un marchio registrato di Verband der Automobilindustrie e.V, VDA), il quale è dotato di apposita pompa, indicatore di livello e riscaldatore, un catalizzatore dedicato ed un’apposita elettrovalvola dosatrice (iniettore AdBlue). Inoltre, il sistema include dei componenti per il controllo dell’efficienza del sistema, quali sensori di temperatura e misuratori di concentrazione di ossidi di azoto (sonde NOx). Di solito il controllo dell’impianto è integrato nella centralina motore, ma in alcuni casi è montata una ECU specifica (DCU, Dosing Control Unit).
Gli impianti SCR recenti sono più complessi, in quanto possono prevedere due o tre sonde NOx, due iniettori AdBlue (come ad esempio il sistema Volkswagen) e diversi sensori di temperatura.
Un requisito fondamentale di buon funzionamento è sicuramente la qualità dell’AdBlue utilizzato, il quale deve avere una miscelazione del 32,5 in percentuale di acqua distillata ed urea tecnica in alta qualità (cioè con bassi contenuti di metalli, calcio, biureto etc.), come da specifiche ISO 22241 e DIN 70070. Ma spesso l’accensione della spia AdBlue o “Service” è dovuta ad altre cause.
Tra i motivi più frequenti di guasto ci potrebbe essere un errore nella lettura del livello di urea nel serbatoio: anche se si è effettuato il pieno o un semplice rabbocco, il livello visualizzato sul quadro strumenti (ove disponibile) e quello letto tra i parametri diagnostici rimane lo stesso. Attenzione, però, perché può accadere anche esattamente il contrario, ossia che il serbatoio risulti pieno o parzialmente pieno ma in realtà essere quasi vuoto!
Ciò è dovuto alla presenza di cristallizzazioni di urea sul sensore di livello che ne impediscono la normale misurazione; questo fenomeno spesso avviene quando il contenuto di AdBlue nel serbatoio è di frequente basso, condizione che favorisce la formazione di residui fissi (calcare o cristalli di urea).
In tal caso si può tentare una pulizia del serbatoio (dato che il sensore non è separabile) tramite semplice acqua tiepida addizionata con prodotti per la pulizia specifici e ripristinare il funzionamento del misuratore di livello.
Ma se il problema persiste, la soluzione è quella di sostituire l’intero serbatoio, con un esborso economico non indifferente. In questi casi, è bene ricordare che potrebbe essere necessaria una procedura diagnostica di reset o di apprendimento del nuovo serbatoio.
Per i serbatoi, inoltre, esiste una casistica guasti ben precisa che coinvolge le vetture del gruppo PSA, più o meno riconosciuta dalla casa madre. A causa di un difetto costruttivo, gli sfiati del serbatoio tendono ad ostruirsi così da determinare, con lo svuotamento del serbatoio, una progressiva depressione che ne provoca una lesione dell’involucro, danneggiandolo irrimediabilmente. È inevitabile che il serbatoio debba essere sostituito, ma qui la spesa è ancora maggiore in quanto questa unità integra anche una sezione elettronica di gestione.

Figura 1: serbatoio AdBlue gruppo PSA
 
Infine, sempre per quanto riguarda il livello, è importante attenersi anche alle capienze massime del serbatoio, ossia non riempire oltre la capacità indicata dal costruttore: questo perché il serbatoio deve avere in ogni caso un certo spazio libero per permettere l’aumento di volume del liquido in caso di congelamento (che avviene a -11° C). Quindi la quantità da immettere per arrivare a fare il pieno va sempre calcolata rispetto a quella già presente nel serbatoio.
 
All'interno del nostro Forum potrete trovare contenuti aggiuntivi quali:
Guasti riconducibili alla pressione d’esercizio insufficiente con DTC P20E8
Sonde NOx con codice errore P06EB
 
 

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Automotive

Olio motore, trasmissione e antigelo nei veicoli: differenze tra viscosità e perché vanno rispettate

Alcuni dei componenti più importanti di un motore e di una trasmissione sono rappresentati dai fluidi di lavoro con i quali essi operano, ossia i lubrificanti ed i liquidi di raffreddamento.
Tali fluidi naturalmente hanno un certo grado di usura ed invecchiamento, aspetti richiedenti quindi una regolare manutenzione che assume un’importanza vitale per qualsiasi motore o trasmissione. Oltre alla regolarità, però, una buona manutenzione esige anche l’utilizzo dei materiali corretti.
È basilare impiegare oli e liquidi di raffreddamento con le specifiche idonee, per cui è altrettanto fondamentale conoscere quale esse siano e come vengano diversificate.
 
I lubrificanti


Principalmente gli oli lubrificanti sono composti da oli base (miscela di idrocarburi o di sintesi (sintetica) e additivi, la percentuale dei componenti dipende dall’uso specifico che si fa degli oli in produzione.
Un olio base (la cui frazione può variare fra il 70 % e il 99 % della composizione totale del lubrificante) è classificato principalmente in quattro tipi diversi: basi minerali (gruppo I), basi minerali idrogenate o semisintetiche (gruppo II e III), basi sintetiche (gruppo IV), come ad esempio i PAO (polialfolefine) o gli oli poliglicoli (la sintesi chimica non è altro che la ricostruzione delle molecole dell’olio base effettuata in laboratorio) e le basi rigenerate alle quali appartengono i lubrificanti che vengono raccolti dai consorzi di oli usati che, dopo accurate procedure di ri-raffinazione e ri-additivazione del prodotto, vengono reimmesse sul mercato.
Ma la vera e sostanziale differenza viene creata dagli additivi, che possono ammontare dall’1% fino al 30 % della composizione dell’olio.
I pacchetti di additivazione vengono aggiunti da ogni singola casa costruttrice di lubrificanti secondo criteri "autocertificati" e si generalizza distinguendoli tra sintetici, nanotecnologici, semi-sintetici e minerali.
Gli additivi possono svolgere azione antischiuma, prolungare la vita del lubrificante, avere proprietà detergenti e disperdenti ostacolando la formazione e l’accumulo di lacche e morchie, inibitori della corrosione, inibitori dell’ossidazione, riduzione degli attriti, miglioratori di viscosità.
Miscelando i due componenti (oli base + aditivi) si possono ottenere vari risultati in ordini di prestazioni caratteristiche e peculiarità dell’olio.
È evidente che le tipologie di lubrificante possono essere davvero tante, quindi per distinguere e conoscere le caratteristiche di un olio è necessario ricorrere ad una classificazione.
La classificazione SAE è una delle più note ed utilizzate, tiene conto della viscosità di un olio a bassissime temperature e a 100 °C. Quindi dà un idea intuitiva ed immediata delle prestazione dell’olio motore, in particolare nell’avviamento a freddo (anche a temperature bassissime) e del funzionamento a temperatura di esercizio di un motore (100 °C).
È possibile classificare oli multigrado, cioè in grado di garantire la lubrificazione di tutti i componenti e la tenuta idraulica dell’olio stesso per ampi range di temperatura ed oli monogrado, che mantengono un certo indice di viscosità in un intervallo di temperatura molto ridotto (però oggi non sono più impiegati per i motori).
La classificazione a freddo viene seguita dalla lettera W (sta per WINTER) in quanto è una caratteristica che riguarda principalmente il funzionamento invernale e a freddo dell’olio, mentre il riferimento a 100 °C non è seguito da nessun simbolo. Il limite di questa classificazione è che tiene conto della sola viscosità.
La specifica SAE degli oli multigradi è composta da due numeri preceduti dalla dicitura SAE, in cui il primo indica la viscosità a freddo mentre il secondo quella a caldo, in entrambi i casi misurata in cP (centi Poise, che è l'unità di misura nel sistema CGS della viscosità dinamica).
Esempio:
o   SAE  10W-40
o   SAE  15W-50
o   SAE  80W-90
Invece la classificazione degli oli mono grado è composta da un solo numero preceduto dalla dicitura SAE:
o   SAE 75
o   SAE 35
o   SAE 90
Per gli oli monogrado non è classificato il secondo range di funzionamento perché in questa classificazione mancante l’olio non può lavorare.
 

Figura 1: classificazione oli SAE
 
 
Un olio può essere classificato anche tramite la norma API (American Petroleum Institute) e tiene conto della qualità intrinseca dell’olio e non solo della viscosità. Il lubrificante viene sottoposto ad una serie di test, determinandone così la classificazione.
Per cominciare, divide gli oli in 5 categorie, considerando anche i lubrificanti per le trasmissioni:
o   S (Service, API S), per veicoli a benzina;
o   C (Commercial, API C), per veicoli diesel;
o   F (API F), per veicoli diesel di recente costruzione a basso livello emissivo;
o   GL (Gear Lubricant, API G), oli per trasmissioni automatiche;
o   M (Manual Transmission, API M), oli per trasmissioni manuali.
 
Poi assegna una seconda lettera che va da “A” a salire seguendo l’ordine alfabetico ed indica la severità dei test superati dall’olio, determinando quindi il livello prestazionale dell’olio stesso. Ad esempio, si può avere un olio SM (benzina) o CJ (diesel) e CF (diesel ad iniezione indiretta).
Per i motori a gasolio, la seconda lettera può essere seguita a sua volta da un numero, per indicare specifiche applicazioni tipo CI-4 (diesel 4 tempi) o CF-2 (diesel 2 tempi).
Tanto più è avanzata la seconda lettera tanto migliore è l’olio. Di conseguenza l’olio di qualificazione più alta soddisferà tutte le specifiche precedenti.
Ad oggi le classificazioni per i motori a benzina sono arrivate sino a “SP” (Maggio 2020, ideato per prevenire la pre accensione a bassa velocità) e per i diesel a CK-4, formulato per lavorare con gasoli a tenore di zolfo fino a 500 ppm e particolarmente efficaci per allungare la vita dei sistemi di post trattamento dei gas di scarico e dei filtri DPF.
Si compone i due caratteri, una lettera che sta ad indicare le varie tipologie di motore e da un numero che determina i diversi usi ed applicazioni all’interno della classe stessa determinata con la lettera.
Un ulteriore classificazione è quella riferita ad ACEA (Associazione Costruttori Europea Automobili), la quale prevede 4 differenti standard in funzione della motorizzazione adoperata e del tipo di impiego.
È formata da lettere e numeri:
– A/B (ACEA AX/BX): benzina (A) e gasolio (B), con il numero “X” che può variare da 1 a 5. Il numero crescente indica un crescente e migliore grado di protezione;
– C (ACEA CX): anche qui il numero “X” può variare da 1 a 5, adatto per i motori con post trattamento dei gas di scarico e che richiedono un olio a basso contenuto di ceneri;
– E (ACEA EX) utilizzato per i veicoli commerciali, qui invece il numero “X” può andare da 4 a 9.
 
A differenza della classificazione API, un numero alto non sta obbligatoriamente a significare una migliore performance dell’olio, il numero determina solo il campo di utilizzo, è importante quindi in caso di sostituzione dell’olio attenersi alle specifiche dettate dal costruttore del veicolo.
 

Figura 2: classificazione oli ACEA
 
Non si dimentichino, inoltre, le specifiche approvazioni dei costruttori, generalmente realizzate secondo dei test ancora più severi.
Sono caratterizzate da una sigla con l’acronimo della casa costruttrice ed una serie di numeri. Per Volkswagen, per esempio, si ha 504.00 (per motori benzina Euro 4) oppure per FCA il codice FIAT 9.55535-S1 (motori Diesel con sistemi di post trattamento dei gas di scarico, con caratteristiche Fuel Economy ed allungamento dell'intervallo di cambio).
Per i cambi manuali si usano le designazioni API GL, che vanno da GL-1 a GL-5, dove il numero crescente indica una progressiva resistenza dell’olio alla pressione degli ingranaggi senza che questi vengano a contatto. La maggior parte dei moderni cambi utilizza le GL-5. Inoltre, esiste anche la specifica MT-1, che però è destinata alla classificazione di oli per i cambi manuali non sincronizzati di autobus e veicoli per il trasporto pesante.
Per i cambi manuali vengono usate anche le specifiche SAE, con la medesima logica utilizzata per gli oli motore, dove però la viscosità non è rappresentata nella stessa maniera. Per fare un esempio, un olio per cambi di tipo 75W-90 corrisponde ad un olio motore 10W-40.
Le trasmissioni automatiche impiegano oli ATF (Automatic Transmission Fluid), che possono essere essenzialmente designati tramite le specifiche proprietarie della GM (Dexron).
Anche Ford detiene proprie specifiche (Mercon), ma sono quelle meno utilizzate.
La Dexron è divisa nelle categorie Dexron, Dexron II, IID e IIE, Dexron III e Dexron VI, con caratteristiche crescenti in termini di qualità.
Per ciò che riguarda Ford la classificazione è composta dalle specifiche Ford Type F, Mercon e Mercon V.
Altra caratteristica di diversificazione per un ATF è la colorazione (tramite additivo): esistono oli verdi e rossi (più diffusi) ma anche gialli, viola e blu.
Per gli automatici non si devono dimenticare le specifiche dei costruttori dei cambi dato che ogni trasmissione ha caratteristiche molto peculiari. Vale quindi la regola che ogni cambio ha il proprio olio ed in virtù di questo, sono forse ancor più rilevanti delle specifiche descritte poco prima.
Le sigle usate sono le più disparate e seguono classificazioni interne del costruttore. Per una trasmissione Aisin, per portare un esempio, si può avere un olio Aisin JWS3309/AW1, per uno ZF l’olio LifeguardFluid 8 (ZF No. S671 090 312). In generale, a tali specifiche fanno poi riferimento tutte le designazioni dei costruttori dei veicoli.
In merito ai cambi ZF, può essere utile consultare un documento ufficiale in cui sono elencati i lubrificanti per tutte le trasmissioni manuali, doppia frizione ed automatiche per autovetture, scaricabile a questo indirizzo: https://aftermarket.zf.com/remotemedia/lol-lubricants/lol-it/lol-te-ml-11-it.pdf
 
 
I liquidi di raffreddamento
Così come per i lubrificanti, anche per i liquidi di raffreddamento (comunemente detti “antigelo”, termine però non appropriato) sono fondamentali le specifiche ed ogni motore deve lavorare con il liquido idoneo. Ogni buon liquido di raffreddamento deve ovviamente sottrarre calore ma anche lubrificare e proteggere dalla corrosione.
Sono costituiti da una soluzione di acqua e glicole propilenico o etilenico oppure glicerina a cui è aggiunto un proprio pacchetto di additivi. Le sigle che li distinguono sono tre: G11, G12 e G13, differenziate innanzitutto dal colore.
Il liquido G11 è ormai obsoleto, in uso fino agli anni ’90. È di colore blu/verde (verde petrolio). Non è adatto per motori con monoblocco e radiatore in alluminio.
Al G12 vanno affiancate ulteriori due classi, le G12+ e G12++ e sono liquidi più evoluti rispetto al precedente, in cui non vengono più usati silicati e fosfati, attualmente impiegati su tantissime vetture (incluse anche le ibride). Il colore è il rosso per il G12, mentre è rosa molto intenso per i G12+ e G12++.
Il liquido più recente è il G13 (dal 2008), che viene realizzato con glicerina al posto del glicole ed è riconoscibile dal colore viola.
Un aspetto da tenere fortemente in considerazione è la miscibilità dei diversi liquidi, specie quando si opera un rabbocco. Infatti non tutti possono essere mescolati, pena la formazione di morchia ed intasamento nel circuito o la riduzione dell’efficacia degli additivi (specie quello anticorrosione). Quindi la scelta del liquido deve essere sempre quella giusta e mai approssimativa.
La tabella riportata è un pratico vademecum per controllare le possibili miscibilità. 
 

Figura 3: miscibilità liquidi raffreddamento
 
 
 

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Anomalie, diagnosi e verifica Alternatori "Intelligenti" (gestiti da Controllo Motore)

In una moderna automobile, definire l’alternatore una semplice macchina elettrica deputata alla conversione dell’energia meccanica in energia elettrica è quanto mai riduttivo.
Sebbene l’alternatore continui, naturalmente, a svolgere il compito di generatore di tensione che alimenta elettricamente tutti i sistemi e la batteria della vettura non è di certo lo stesso componente utilizzato nelle auto di qualche anno fa.
L’alternatore è stato oggetto di importanti evoluzioni che, di fatto, hanno reso possibile definirlo “intelligente”, cioè in grado di variare il proprio funzionamento in base alle condizioni al contorno.
In sostanza, questi nuovi alternatori possono variare la tensione di carica, fino ad arrivare alla completa disattivazione quando il loro funzionamento non è più strettamente necessario. È noto che l’alternatore impiega parte dell’energia meccanica sviluppata dal motore a scoppio per generare energia elettrica. La gestione della carica permette allora di ottimizzare il rendimento del motore endotermico in termini di carburante utilizzato e, quindi, di emissioni inquinanti.
Per verificare e risolvere eventuali anomalie di funzionamento, occorre conoscere come è cambiata la gestione di un alternatore di questo tipo.
 
In linea generale, l’alternatore prevede una tensione di ricarica compresa tra 12,6 V (alternatore disattivato) e 15 V.
Dopo l'avviamento del motore viene dapprima effettuata una carica rapida con tensione elevata, fino al riconoscimento di uno stato di carica sufficientemente alto della batteria. La ricarica rapida avviene con una tensione di 15 V e può durare per un tempo variabile da 20 secondi fino ad un’ora, a seconda della carica della batteria (Fase B).
Si passa successivamente ad una caratteristica di carica in funzione della temperatura esterna e della richiesta di potenza dei carichi elettrici a bordo vettura (Fase C). In tale fase, la carica varia da 13,5 V fino a 15 V, quindi sarà del tutto normale osservare una tensione generata che risulta variabile.
Nella fase successiva (Fase D), quando la batteria ha raggiunto l’80 % di carica l’alternatore può regolarsi sulla soglia minima di carica per arrivare anche alla completa disattivazione, in quanto gli assorbimenti elettrici degli utilizzatori possono essere supportati anche dalla sola batteria.
Infine (Fase E), l’alternatore torna di nuovo ad una carica di 15 V trasformando parte dell’energia cinetica, che viene resa disponibile dal veicolo in fase di rilascio dell’acceleratore, in energia elettrica. È la fase di recupero dell’energia, che così massimizza il rendimento energetico della vettura.

Figura 1: grafico modalità di carica
 
A= Avviamento motore


B= Carica rapida


C= Carica in funzione della temperatura e carichi vettura
D= Gestione alternatore


E= Carica nella fase di rilascio.
La gestione dell’alternatore è possibile grazie ad un regolatore di carica diverso, il quale è collegato solitamente con la ECU motore (oppure una specifica centralina di gestione della carica) tramite una rete LIN (rete di comunicazione digitale a singolo filo, a bassa velocità), attraverso la quale riceve i comandi di carica da impostare e lo stato elettrico della vettura. L’alternatore avrà quindi un piccolo connettore a cui è collegato il filo di linea LIN.
Ma un ruolo altrettanto fondamentale viene svolto dal sensore IBS (installato sul polo negativo della batteria) che misura costantemente tensione e corrente di ricarica e la temperatura della batteria. Anche il sensore è collegato su rete LIN, che può essere la stessa dell’alternatore o una dedicata.
Grazie a queste informazioni (e a quelle provenienti dall’intero veicolo), la centralina iniezione imposta i comandi per l’alternatore in base ad un mappatura ben distinta.

Ai fini diagnostici, occorre innanzitutto riconoscere se trattasi di un alternatore intelligente; per farlo in maniera certa basterà verificare la presenza o meno del collegamento LIN. Ad ulteriore conferma, se si stacca il connettore di quel piccolo filo, in diagnosi si avrà sicuramente un errore di comunicazione LIN, come ad esempio l’errore U1801 – LIN bus segnale/ messaggio fallito.
Dato che questi alternatori possono impostare una tensione di carica assai variabile, la prima verifica da eseguire è osservare se lo stesso alternatore sia guasto o meno. Allora la prova più semplice è quella di sconnettere il cavo di rete LIN: in tal modo, non ricevendo più informazioni sulla richiesta di potenza elettrica, l’alternatore imposta una modalità di recovery iniziando una carica a 14 V – 14,5 V costanti, anche se in quel momento fosse disattivo. Si ha quindi un chiaro riscontro sulla sua funzionalità. La LIN può essere staccata sull’alternatore o più comodamente sul sensore IBS.
Se l’alternatore non carica, si può ipotizzare anche un guasto sulla rete LIN.
Come detto, questa rete dati è monofilare e di tipo digitale, nella quale vengono trasmessi treni di segnali ad onda quadra, quindi la verifica del segnale può essere fatta tramite un oscilloscopio che però ne rivelerebbe solamente la presenza ma non ci darebbe modo di interpretarne il messaggio. Per cui la verifica è di tipo quantitativo e non qualitativo. Allora, per il controllo può essere sufficiente anche un multimetro con il quale è possibile analizzare la tensione presente sulla rete e la continuità del cablaggio. Questo è possibile per le analisi esposte di seguito.
Essendo la LIN una trasmissione digitale con ampiezza variabile tra poco più di 0 V e la tensione di alimentazione della vettura, il multimetro, attraverso una misura in Volt sul filo della linea, rileverà una tensione che è la media dell’ampiezza del segnale ma che comunque rappresenta un feedback sulla sua presenza.

Figura 3: Oscillogramma del segnale rete LIN (solo quadro accesso)
 
Come puoi diagnosticare la rete LIN di un alternatore intelligente?
Scoprilo seguendo alcuni semplici controlli nel FORUM !!
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Evoluzione sistema iniezione motori Firefly

Gli sviluppi tecnici nella meccanica e nell’elettronica seguono le evoluzioni delle normative antinquinamento. Ciò comporta l’adozione di dispositivi e strategie atti a soddisfare i nuovi limiti sulle emissioni e sugli inquinanti, specialmente nell’ottica del nuovo e severo ciclo guida WLTP (Worldwide Harmonized Light vehicles Test Procedure) e delle prove su strada RDE (Real Driving Emissions), con il quale sia il particolato che gli ossidi di azoto vengono rilevati con prove reali su strada. In quest’ottica FCA ha progettato e realizzato delle nuove unità a benzina denominate “Firefly” (in continuità, anche nel nome, con il vecchio ma glorioso “Fire” uscito di produzione qualche tempo fa).
Sono pertanto propulsori benzina che vanno a rimpiazzare i vecchi 0,9 TwinAir e 1.4 MultiAir.
Caratteristica interessante di questi motori è quella di essere concepiti con strategia modulare, sulla stregua quanto già fatto da BMW e VAG negli ultimi anni. Per maggior chiarezza, la cubatura di un singolo cilindro è identica tra i due motori, tre o quattro cilindri, permettendo così notevoli risparmi in termini di unificazione dei componenti e delle linee di produzione.
Le prime versioni che hanno visto la luce sul mercato europeo sono il 1.0 da 120 CV ed il 1.3 da 150 e 180 CV, tutti con moduli MultiAir, quattro valvole per cilindro e turbocompressi.
Tra le novità più di rilievo di queste unità benzina si annoverano l’iniezione diretta, l’intercooler raffreddato a liquido (integrato nel collettore di aspirazione) e la wastegate elettrica del turbocompressore.
Proprio perché presenta interessanti innovazioni tecniche, alcune utilizzate per la prima volta dal gruppo FCA ed altre che invece costituiscono una novità assoluta rispetto anche agli altri costruttori, si veda più nello specifico come è fatto e come funziona l’impianto di iniezione benzina.
Il sistema di iniezione diretta di questi Firefly è composto da una pompa di bassa pressione, una centralina che ne governa il funzionamento ed una pompa meccanica di alta pressione.

Figura 1: schematizzazione sistema iniezione diretta
 
L’alimentazione di benzina sul ramo di bassa viene assicurata dalla pompa elettrica ad immersione nel serbatoio, all’interno della quale troviamo un regolatore meccanico di pressione, un filtro ed una valvola di non ritorno.
La prima novità di rilievo è costituita dal fatto che la portata e la pressione della benzina vengono regolate da una centralina apposita collocata sul passaruota posteriore destro. Per accedervi occorre smontare la ruota ed il passaruota.

Figura 2: Centralina pompa benzina di bassa pressione
 
 

Figura 3: Centralina pompa benzina di bassa pressione, particolare
 
I parametri di lavoro della pompa (portata e pressione) sono coordinati da questa centralina sulla base delle informazioni scambiate con la centralina motore.
Lo scambio informazioni tra la centralina motore e quella della pompa avviene tramite un PWM in arrivo al pin B e un feedback di rimando in uscita dal pin F del connettore della centralina pompa stessa.
La bassa pressione è monitorata da un apposito sensore, accessibile dal vano motore, ubicato nelle vicinanze del duomo destro.

Figura 4: Sensore di bassa pressione carburante, particolare
 
Per quanto attiene all’alta pressione, la pompa meccanica viene azionata da una camma posta sulla coda dell’asse a camme, subito dopo la ruota fonica del sensore di fase.

Figura 5: pompa di alta pressione benzina con regolatore di pressione
 
Nella pompa è integrato un regolatore di pressione di tipo N.A. Ciò vuol dire che, se non pilotato, la pressione nel rail è minima.
La modulazione della suddetta pressione si ottiene strozzando il rifiuto della pompa in fase di spinta dello stantuffo. In questo modo al rail viene indirizzato solo il quantitativo necessario di benzina e il surplus ritorna in ingresso alla pompa.
In caso di guasto il motore fatica all’avviamento, riuscendo comunque ad avviarsi ma non sale di giri poiché la pressione nel rail è fissa a 5 bar.
L’altra novità è rappresentata dalla tipologia di sensore di alta pressione posto sul rail (è ubicato sopra il collettore di aspirazione), il quale è dotato di un connettore a quattro fili. Questo per via della presenza di un doppio segnale di pressione.

Figura 6: sensore pressione rail
 
In caso di guasto il motore si avvia ugualmente ma vengono generati due codici guasto, il P0192: “sensore pressione carburante sul rail, pressione bassa” e il P01C0 “bassa tensione sul circuito sensore “B”, pressione condotto di distribuzione carburante”.
L’impianto raggiunge una pressione di picco sul rail di 200 bar, mentre la bassa pressione resta compresa tra i 5,5 e i 6,5 bar.
I due segnali emessi dal sensore sulla base della pressione letta nel rail lavorano in plausibilità, in maniera del tutto analoga a quanto accade ad esempio per un corpo farfallato.
Gli iniettori sono installati sul rail e prevedono che l’accoppiamento tra l’iniettore e la testata avvenga attraverso una guarnizione in teflon, la quale deve essere sostituita ogni qualvolta si smonti l’iniettore.
Formano un unico blocco che si estrae tutto insieme; per rimuovere il singolo iniettore si sgancia la relativa mollettina.
Normalmente l’apertura avviene durante la fase di aspirazione, ma nei transitori di riscaldamento e durante le fasi di richiesta di potenza l’iniezione viene raddoppiata: una durante l’aspirazione e l’altra alla fine della fase di compressione.
 
 
 

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Tipologie, diagnosi e struttura dell'impianto ibrido delle vetture Mild Hybrid (48 V)

A metà strada tra una vettura convenzionale con solo motore termico (denominata con la sigla ICE, Internal Combustion Engine) ed una di tipo ibrido (detta anche Full Hybrid o HEV, Hybrid Electric Vehicle) si pone una vettura definita Mild Hybrid.
Le distinzioni tra le diverse tipologie vengono fatte a seconda del sistema di trazione utilizzato e dal tipo di management dell’energia elettrica.
Per la trazione, le vetture ICE utilizzano l’unico motore a disposizione, ossia quello a combustione interna e non hanno nessun dispositivo di natura elettrica per la marcia del veicolo. La batteria montata a bordo è quella al piombo acido, sebbene possa distinguersi tra una normale SLI, una Heavy Duty oppure un’AGM.
Le Full-Hybrid impiegano uno o due motori elettrici dedicati e batteria ad alta tensione che permettono la trazione della vettura in elettrico fino ad una determinata velocità e/o distanza percorsa oppure in accoppiamento con la trazione offerta dal motore termico.
La batteria ad alto voltaggio viene ricaricata nelle fasi di marcia sfruttando il motore termico, mentre in decelerazione e frenata tramite il motore elettrico. Per le ibride in versione Plug-In, la carica può anche e soprattutto avvenire tramite una presa elettrica dedicata che sfrutta una sorgente di energia esterna (ad esempio una colonnina).
Il discorso cambia per una Mild Hybrid (o ibrido «medio» MHEV), che rappresenta una soluzione tecnica di tipo ibrido parallela, molto diversa. Un sistema ibrido parallelo è un’architettura caratterizzata da un nodo meccanico di accoppiamento della potenza che permette ad entrambi i motori (elettrico e termico, benzina o diesel) di fornire coppia alle ruote.
Nel Mild Hybrid, tale sistema è composto da:
Una macchina elettrica denominata BSG (Belt Starter Generator), funzionante a 12 – 24 – 48 Volt; Un convertitore DC/DC; Una batteria agli ioni di litio a 12 – 24 – 48 Volt; Una batteria a 12 Volt convenzionale.  
Si deve pensare ad una Mild Hybrid come ad un’autovettura dotata di due impianti elettrici distinti (“sezioni” elettriche), rappresentati da quello tradizionale a 12 V e da quello aggiuntivo che può essere a 12 V, a 24 V o a 48 V, che lavorano contemporaneamente e in maniera sinergica.
Approfondiamo l’aspetto tecnico solamente sul sistema a 48 V, che è il più diffuso ed è utilizzato, ad esempio, da Renault, Ford, Volvo, FCA, PSA, Land Rover, BMW, gruppo VAG, Hyundai - Kia e Mercedes.
 
La linea a 12 V convenzionale continua a supportare le alimentazioni di tutte le centraline e i dispositivi di bordo (confort, illuminazione, sicurezza, ecc.).
Su molte vetture, è presente ancora il motorino di avviamento classico alimentato sempre a 12 V, utilizzato per i primi avviamenti.
La linea aggiuntiva a 48 V è riservata per il funzionamento del motoalternatore BSG e della relativa batteria al litio (e, sebbene indirettamente, anche di quella al piombo) e viene interfacciata con la sezione a 12 V tramite il convertitore di tensione DC/DC. In applicazioni future, tale sezione verrà dedicata ad alimentare componenti funzionanti direttamente a 48 V, come ad esempio i compressori A/C di nuova generazione (quindi ad azionamento elettrico e non più meccanico) e i “turbocompressori” elettrici (come già presente su alcuni motori Audi), in grado di azzerare praticamente il fastidioso turbo lag.
 

Schema di principio di un sistema Mild Hybrid
 
Il BSG (o anche ISG, Integrated Starter Generator) è un motoalternatore che coniuga le funzioni del motorino di avviamento e dell'alternatore in un'unica macchina elettrica che consente di avviare il motore e di fornire coppia motrice (funzione di starter e di motore elettrico di boost), nonché di generare tensione con il motore termico in moto (funzione di alternatore) e sostituisce in toto l’alternatore convenzionale. Il motoalternatore è collegato all'albero motore mediante una cinghia poli-V. Nei sistemi Mercedes, invece, è costituito da un vero e proprio motore elettrico integrato nel cambio, che però svolge le medesime funzioni.
Come detto, gran parte delle vetture sono comunque equipaggiate di un motorino di avviamento separato a 12 V, con il quale vengono effettuati i primi avviamenti e quelli in presenza di basse temperature esterne.
In sostanza, il BSG unisce le caratteristiche di un alternatore intelligente a quelle di un Kers.
Durante il funzionamento da alternatore, lo scopo del BSG è quello di generare la tensione di ricarica a 48 V della batteria al litio grazie alla coppia del motore termico e, durante le fasi di veleggiamento e frenata, trasformando l’energia cinetica in quella elettrica (fase di recupero, il motoalternatore è un generatore trascinato dall’assale di trazione).
La batteria al litio, a sua volta, fornisce al BSG l’energia per funzionare come motore elettrico in grado di erogare una certa coppia motrice direttamente all’albero motore a cui è collegato, ad esempio durante le fasi di sorpasso (funzione di boost), di riavvio del motore in regime di Start&Stop e di sostenere la trazione durante la marcia a velocità costante e basso carico motore. La potenza che il motoalternatore è in grado di erogare è compresa mediamente tra i 5 e 6,5 kW e coppie di circa 50÷60 Nm come motore, mentre in fase di generazione la potenza va dagli 11 ai 14 kW. Ogni unità è dotata di una centralina elettronica di elaborazione e comunicazione.
Tutti i motoalternatori lavorano con un tendicinghia doppio, che è un elemento fondamentale ai fini del loro funzionamento in quanto deve assicurare sempre il corretto tensionamento È un duplice tenditore perché si ha la necessità di tendere la cinghia in entrambi i versi di rotazione, a seconda che il BSG funzioni da generatore o da motore.
La batteria MHEV agli ioni di litio, oltre ad alimentare il motogeneratore, supporta anche la batteria a 12 V (tramite il converter) per garantire il funzionamento di tutti i sistemi attivi. Con questa strategia il motore termico, nelle fasi di Start/Stop, rimane spento per tutta la durata della sosta temporanea (anche quelle particolarmente lunghe), al contrario dei sistemi con la sola batteria a 12 V che, per permettere al driver di utilizzare tutti i sistemi della vettura, provvedono a riavviare il motore per non far scendere troppo la tensione batteria.
In linea generale, queste batterie sono costituite da un certo numero di celle collegate in serie (che è variabile in base alla vetture), per una capacità totale intorno ai 10 ÷12 Ah. L’accumulatore al litio integra una centralina che ne gestisce il controllo, un fusibile di protezione contro le sovracorrenti (che però non può essere sostituito) ed un relè sezionatore, il quale viene attivato in caso di crash della vettura per evitare pericolosi corti circuiti e possibili incendi della batteria stessa.
 

Batteria MHEV, fusibile di sicurezza (Ford Puma)
 
Un parametro determinante per ogni batteria al litio è la temperatura, che non deve mai salire oltre i 50° C ÷ 60° C. A tal proposito, gran parte di esse sono provviste di un sistema di raffreddamento a ventola.
L’altro componente principale di un sistema MHEV è il convertitore di tensione DC-DC 48/12 V. Realizza la fondamentale funzione di “raccordare elettricamente” le due sezioni di bordo che lavorano a tensioni diverse. Come detto in precedenza, l’alternatore è unico e, per consentire la ricarica di entrambe le batterie, entra in gioco il convertitore il quale trasforma le tensioni a seconda dell’utilizzo che la vettura richiede, abbassando e modulando la tensione da 48 V a 12 V. Naturalmente, oltre la sezione di potenza, il convertitore include una propria centralina per lo scambio e l’elaborazione dati.
In sostanza il sistema Mild Hybrid svolge così un compito di elettrificazione leggera del veicolo, a vantaggio di consumi ed emissioni inquinanti. L’aiuto elettrico, infatti, consente al motore termico di lavorare entro un range di carico ottimizzato all’insegna dell’efficienza (meno carburante, meno emissioni). Con l’utilizzo del BSG, inoltre, lo Start&Stop viene velocizzato ed il sistema acquisisce la possibilità di alzare la soglia di arresto del motore, che avviene già ad una velocità di 30 km/h.
 
I componenti possono avere ubicazioni diverse in base al veicolo considerato.
La batteria trova posto nel vano bagagli posteriore oppure sotto ai sedili del passeggero o del guidatore, mentre il converter viene collocato sotto i passaruota anteriori, all’interno della vettura al di sotto del cruscotto o accanto alla batteria al litio quando questa è montata nel bagagliaio. Per ovvie ragioni, il motoalternatore è montato nel vano motore.
Altri costruttori optano per assemblare tutti i componenti in un unico aggregato, che si trova avvitato al pianale della vettura oppure sempre nel vano bagagli.
 

Aggregato MHEV Land Rover
 
 
Legenda
1.    Connettore del cavo della batteria MHEV
2.    Cavo della batteria di avviamento (12 V positivo)
3.    Cavo della batteria MHEV (positivo)
4.    Convertitore DC/DC
5.    Cablaggio elettrico dell’alloggiamento della batteria MHEV
6.    Ventola di raffreddamento del convertitore DC/DC
7.    Batteria MHEV
8.    Tubo di sfiato della batteria
9.    Ventola di raffreddamento elettrica della batteria MHEV
10.  Cavo di massa
11.   Scatola di derivazione batteria MHEV
12.  Cavi della batteria convenzionale e connettore dei cavi di massa (scocca veicolo)
 
Il sistema può essere completamente diagnosticato tramite la presa OBD della vettura in quanto, come prima sottolineato, tutti i componenti hanno una ECU di controllo, le quali sono interconnesse tra loro e collegate al resto dell’auto tramite una rete CAN specifica (CAN Hybrid). Tutto il sistema MHEV viene coordinato, solitamente, dalla centralina motore, la quale rappresenta perciò il nodo elettronico di riferimento per le eventuali diagnosi del sistema.
Una delle procedure che, ad esempio, il tecnico meccatronico si troverà ad affrontare maggiormente riguarda il reset della condizione di blocco avviamento dopo un evento di crash (quando la batteria viene sezionata per motivi di sicurezza), senza la quale il veicolo non riparte.
Come di routine sarà l’operazione in diagnosi di sostituzione dei componenti MHEV, la quale è necessaria per ripristinare il funzionamento del sistema dopo un guasto che ne abbia richiesto il rimpiazzo.
La diagnosi è importante, si aggiunge, anche per il controllo efficienza della batteria. I diagnostici vengono dotati, per l’appunto, di una ben specifica funzione di report dell’accumulatore al litio, con cui l’operatore è in grado di verificare diversi parametri tra cui la tensione e la corrente di carica (e scarica), la temperatura e, soprattutto, la tensione di ciascuna delle celle della batteria, nell’ottica di verificarne anche il grado di invecchiamento.
 
 

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Riparazioni sbagliate sugli Adas Mercedes

I sistemi ADAS (Advanced Driver Assistance Systems) hanno reso le nostre vetture evidentemente molto più sicure rispetto al passato.
La frenata automatica AEB (Automatic Emergency Brake) è forse uno dei sistemi ADAS più conosciuti perché è quello che interviene più spesso e quello che ha il maggior effetto sulla condotta di guida: in caso di pericolo immediato, il sistema infatti può intervenire anche con frenate molto energiche.
Il cuore del sistema AEB è una centralina radar che è in grado di rilevare con immediatezza gli ostacoli davanti la vettura entro uno spazio di circa 80 – 100 metri e, nel caso, di far intervenire il sistema ABS. Solitamente il radar, per svolgere al meglio le proprie funzioni, viene montato sulla parte frontale delle auto, installato su dei supporti specifici (a loro volta fissati sulla traversa anteriore della scocca) oppure integrati nel fascione della carrozzeria. Ma proprio per questo motivo, la centralina radar spesso è soggetta a danneggiamenti perché molta esposta ad eventuali urti. In questo caso se la centralina riporta dei danni tali da dover essere sostituita oppure semplicemente l’urto ne provoca un disallineamento con il proprio supporto, dopo le dovute riparazioni è d’obbligo effettuare anche una calibrazione del sistema, realizzata attraverso specifiche attrezzature diagnostiche. Si ricorda che il modulo AEB è un sistema di sicurezza e come tale, quando montato a bordo dell’automobile, deve essere perfettamente funzionante, per cui i ripristini che si vanno ad eseguire devono essere compiuti con le attenzioni del caso.
Proprio in merito alla cura che si deve prestare alla riparazione, è interessante esaminare un caso di intervento su Mercedes GLA (modello X156, 2013 - 2019), in cui il sistema di frenata automatica viene denominato Collision Prevention Assist.
La riparazione si è resa necessaria in seguito ad un urto ricevuto dal frontale della vettura in un tamponamento dove, oltre a quelli inevitabili alla carrozzeria, sono stati riportati danni anche ai cavi della centralina radar.
Forse in seguito ad una riparazione frettolosa ed approssimativa, poi però la vettura non è più ripartita e, all’accensione del quadro, improvvisamente il modulo radar ha cominciato letteralmente a fumare! Ma cosa è potuto succedere?
Il primo aspetto preoccupante è stato rappresentato dall’impossibilità di effettuare qualsiasi diagnosi a nessuna delle centraline del veicolo, con il risultato di ricercare il guasto procedendo un po’ alla cieca. Vediamo come venirne a capo, allora, partendo proprio dal modulo radar.
La centralina del radar è alloggiata nella parte interna del fascione anteriore:

Ubicazione centralina Collision Prevention Assist
 
 

Centralina Collision Prevention Assist
 
 
Il radar ha un connettore a 4 fili costituito da una massa, un’alimentazione a 12 V e due collegamenti CAN ed è collegato al resto dell’impianto elettrico/elettronico della vettura tramite un connettore intermedio che si trova anch’esso dietro il paraurti.
La diagnosi e la risoluzione del guasto è riservata ai Professionisti dell'Autoriparazione.
All'interno del Forum, vedremo come diagnosticare il sistema e procedere alla risoluzione dei difetti riscontrati.
Questo il link diretto:
 
 
 

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